
Barbie versus Piggy
La prima è bellissima: per decenni ha rappresentato l’ideale della femminilità inculcato in milioni di bambine. Bionda, snella, gambe chilometriche, piedini nati già sulle punte per indossare al meglio i tacchi a spillo, intorno un mondo perfetto tutto rosa e amici perfetti che lei accoglie con un sorriso che non si spegne mai. Ha un uomo? Certo. Tutte le donne devono avere un uomo. E com’è? Aitante, servizievole, platinato come lei e con tartaruga d’ordinanza a cui non serve il photoshop. La seconda è sempre triste, goffa, obesa, senza amici, imbruttita da abiti sbagliati e vittima di crudele bullismo.
Ardito confrontare due donne protagoniste di due film che stanno agli antipodi? A me il parallelo invece sembra inevitabile. Allora, procedo con ordine. Sto pensando a due film che usciranno lo stesso giorno, il 20 luglio. Il primo, Barbie, supportato da una campagna stampa planetaria, sicuro successo annunciato (costato 100 milioni di dollari che ampiamente ripagherà), il secondo, Piggy, esce in sordina, distribuito da una sveglissima casa indipendente I Wonder che vanta nel suo catalogo una lunga serie di pellicole d’essai, preziose chicche del cinema mondiale.
Agli antipodi, abbiamo detto, ma con qualche punto in comune. Due donne protagoniste, due donne di talento alla regia (la spagnola più giovane) e un deciso femminismo che serpeggia in tutti e due i titoli, pop e spumeggiante nel primo, aggressivo e dirompente nel secondo. In tutti e due i casi però degno di interesse: per un effetto choc la visione la stessa sera, uno dopo l’altro.
Margot Robbie nasce Barbie, anzi più bella di Barbie perché reale e si diverte a portarla sullo schermo vivacizzandola coi suoi occhi intelligenti e con la sua versatilità. Trovo sia una delle migliori attrici in circolazione, non ho dubbi. Greta Gerwig la regista è altrettanto in gamba (rivedetevi alcuni suoi film prevedenti, ad esempio Lady Bird e Piccole donne: si può forse dirne male?). Sul femminile ha riflettuto parecchio e le è servito per impossessarsi di un film che pur targato Mattel grazie a lei è diventato molto molto di più di un oggetto di solo marketing. Lo scatto, l’idea vincente è far entrare Barbie nel mondo reale, dove all’istante i piedi diventano piatti e, orrore, possono persino indossare i Birkenstock . Ecco che la favola, le illusioni e le imposizioni di una femminilità imposta si sgretolano una dopo l’altra. Ma niente prediche (che sarebbe stato noioso), niente ideologia, perché la leggerezza non poteva svanire. E per fortuna! Ryan Gosling è geniale e, pur attento a rimanere un passo indietro alla star Barbie, è troppo bravo perché il suo Ken resti solo un bambolotto col pube sguarnito. Insomma bollicine, intelligenza e ironia.
Con Piggy veniamo catapultate in un altro mondo, il cupo universo di una sedicenne infelice. Piggy (maialina) è il soprannome che le hanno affibbiato gli odiosi coetanei del suo paesino che la bersagliano con gli scherzi più crudeli. Piggy aiuta i genitori nella macelleria (e già tutti i tagli di carne inquadrati all’inizio del film trasmettono un senso di nausea che non lascerà più lo spettatore), ha un fratellino bolso, mamma e papà ignorano l’infelicità della figlia, chiusi nelle loro grette incombenze di piccoli bottegai. Piggy vorrebbe sparire e la sua mole glielo impedisce, Piggy vorrebbe non essere mai nata, Piggy vuole nascondersi al mondo ed esce di casa solo quando gli altri ci rientrano, Piggy va a nuotare nella piscina del paese quando non c’è più nessuno e si trascina pesante per le strade, guardinga, spaventata. Le sue carni debordano, il costume è troppo piccolo e niente può contenere quel corpo che sente nemico ma che continua a nutrire con cibo spazzatura compensando una tristezza tombale, il caldo la strema e suda, grondando fin dal primo passo. Gli altri adolescenti sono in agguato, la prendono in giro e sono proprio le femmine, quelle più carine, le Barbie, a infierire nei modi più feroci.
Piggy fugge, cerca riparo, Piggy piange quando le rubano i vestiti ed è costretta a tornare a casa seminuda, scalza, bagnata. Ma ecco che succede qualcosa, come in un sogno, anzi un incubo. Sulla strada di casa le si para davanti un furgone, dietro i vetri sporchi qualcosa si muove e anche intorno: un uomo, una ragazza trascinata, una mano che lascia una scia di sangue sul vetro. Lei si impietrisce, dovrebbe aiutarle? Gridare? Cercare aiuto? Ma ecco che dallo sportello del camioncino spunta la mano pietosa dell’uomo lascia cadere una borsa con qualche vestito.
Da qui in poi il film prende i contorni di un horror: un maniaco ha rapito tre ragazze, proprio quelle che bullizzavano Piggy e una viene trovata morta nel bosco. Piggy tace, Piggy pensa al killer che per lei è stato invece un oscuro salvatore, un vendicativo principe azzurro. Con la storia mi fermo qui, dicendo solo che due sono le strade. Da una parte quella realistica: nel paesino è arrivato davvero un serial killer. Dall’altra quella psicanalitica onirica: la killer che si ribella ai bulli è proprio Piggy che però di fronte a una scelta di sopravvivenza così radicale deve inventarsi un alter ego. Niente Margot Robbie qui, ma una giovane attrice di così straordinaria bravura e coraggio che senza di lei il film non si sarebbe potuto realizzare.
La storia nasce come cortometraggio ma l’idea aveva in sé talmente tanta forza che anche nella versione lunga funziona alla grande e anzi trova la sua giusta dimenzione. Piggy e Barbie. Il bianco e il nero, o meglio il rosa e il rosso sangue. Perché questo sono le donne nella loro interezza.
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