RIFLESSI DI CINEMA

Garrone conquista Venezia e i nostri cuori

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"Io capitano" non è solo un bel film ma anche un'opera necessaria, che oltrepassa i confini del cinema e dell’estetica e ci entra sottopelle

Io Capitano 

regia di  Matteo Garrone
con  Seydou Sarr, Moustapha Fall
scritto da  Matteo Garrone, Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri

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Potrebbe essere, e lo è, un film epico. Potremmo classificarlo come un romanzo di formazione, un western africano con al centro il viaggio dell’eroe  che partito ragazzo si ritrova dopo tanti ostacoli superati finalmente uomo. Io capitano, il film di Matteo Garrone applaudito alla Mostra di Venezia, è di sicuro tutto questo ma ci riguarda così tanto che la sua forza e la sua ragione d’essere oltrepassano i confini del cinema e dell’estetica e ci entrano sottopelle. Così un semplice bel film si trasforma in un’opera necessaria che non perde mai la purezza e sa svincolarsi dai ricatti di un dannoso buonismo.

Cominciamo dalla fine, dai titoli di coda che scorrono su quelle vecchie cartine geografiche del secolo scorso, dove tutto era più semplice, quando i confini erano netti e non c’erano mille stati frastagliati con nomi sempre diversi. Su un’Africa che ha colori del deserto un pennarello rosso disegna il viaggio dei due protagonisti, i cugini Seydou e Moussa che, in gran segreto, senza dire nulla alle famiglie, sono partiti da Dakar alla volta dell’Europa. Migliaia di chilometri in condizioni estreme, attraversando il Mali, il Niger, l’ostile deserto del Sahara, l’inferno della Libia e le onde del Mediterraneo a bordo di una barca che galleggia per miracolo. Quella lunga sinuosa riga rossa che occupa quasi mezzo continente ci fa riprovare tutto quello che abbiamo appena visto sullo schermo.

Le bibliche migrazioni a cui assistiamo da anni sono qualcosa di così esplosivo, violento e doloroso che nessuno può restare indifferente. Non lo è restato Matteo Garrone. Regista e autore capace di raccontare la nostra realtà senza dimenticare la potenza di una fiabesca fantasia, da parecchi anni aveva voglia di affrontare proprio la migrazione. Ma come farlo? Doveva documentarsi, doveva trovare un punto di vista. Ci ha pensato molto, si è confrontato con decine di giovani uomini e donne che quel viaggio lo hanno compiuto davvero, si è lasciato invadere e sopraffare dalle loro storie e alla fine ha trovato la strada: sarebbe partito da loro e dall’Africa, concentrandosi su due ragazzi e i loro sogni. Sogni che si riveleranno illusori come accade quando irrompe la realtà.

Fin dalle prime inquadrature facciamo la conoscenza di Seydou e Moussa (bravi da far venire la pelle d’oca), due sedicenni di Dakar, cugini e amici, legatissimi. Amano la musica, giocano col rap, studiano e di nascosto lavorano per metter via i soldi. Vogliono partire per l’Europa, sicuri che là “saranno i bianchi a farsi fare gli autografi”. L’Europa della loro fantasia assomiglia all’America a cui anelavano i milioni di Europei che nell’Ottocento e nel Novecento attraversavano l’oceano in cerca di una vita migliore e di fortuna. Ma il sogno mostra da subito i suoi limiti. Io capitano non fa sconti e mai cede alla retorica, intriso com’è dal bisogno di raccontare qualcosa di vero, così le contraddizioni affiorano presto. Perché la Dakar che i due protagonisti vogliono lasciare è una città sì povera, ma ricca di dignità. I bambini dormono tutti in una stanza con letti affiancati, ma le famiglie sono unite, i legami forti, la solidarietà costante. Le donne sono belle, bellissime, tutti hanno sguardi di velluto e abiti sgargianti, la magia coi suoi riti fa ancora parte della quotidianità, le danze sprigionano forza e energia e l’esotico si impadronisce dello schermo. Con strisce di buio, perché le madri hanno il terrore che i figli partano, spaventate dai tanti cadaveri che costellano la rotta per l’Europa e anche gli sciamani non nascondono la loro preoccupazione. Insomma gli anziani cercano di smascherare le illusioni dei giovani e di fermarli. Ma è impossibile, è come pensare di arrestare la storia.

Seydou e Moussa ascoltano tutti, ma l’entusiasmo e le speranze sono più forti della paura, mettono da parte i dubbi e partono. Il film racconta l’Odissea africana come un susseguirsi di gironi infernali, chi vuole partire viene spolpato tappa dopo tappa, gli sfruttatori e gli aguzzini sono in agguato dovunque, la pietà è merce sconosciuta, i soldi finiscono in fretta e le prove sono troppo dure. Sopravvivere è un miracolo.

Le immagini con cui Matteo Garrone racconta l’inferno del viaggio sono bellissime e si ha pudore a sottolinearlo, come se lasciarsi incantare dai luoghi e dalla fotografia diventasse una mancanza di rispetto per una vicenda di soprusi, perché il magnifico deserto non lascia scampo ai deboli, perché gli uomini sfruttano i loro simili. Eppure anche in mezzo all’orrore sopravvive la poesia e  il dolore si sfuma in una  fuga dalla realtà perché la magia degli avi dà ai due giovani una forza in più, come se la fiducia arcaica in qualcosa di molto potente riuscisse a salvare le vite.
Il film si ferma vicino alla costa italiana e noi sappiamo che i due ragazzi ce l’hanno fatta. Quello che accadrà dopo il film fa bene a non mostrarlo, non ci interessa, lo conosciamo già, perché lo leggiamo sui giornali, lo vediamo in televisione.

Matteo Garrone ha scelto di raccontare il prima, con gli occhi di chi parte. E non si tratta di numeri, ma di persone. Uomini e donne e ragazzi che hanno sogni, illusioni. Il lavoro che ci aspetta è infinito, la rotta dei migranti è lastricata di abusi, in Africa ancor più che in Europa. Soluzioni? Non spetta certo a un film arrivare dove hanno fallito decine di politici e di governi. Un film può solo raccontare e gettare sassi nell’oceano dei dubbi, perché i cerchi non smetteranno di moltiplicarsi e questo Io capitano di sicuro lo fa.

 

 

 

 

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