Il Colibrì dalle poche emozioni, nonostante Favino
Il colibrì
un film di Francesca Archibugi
Dal romanzo di Sandro Veronesi vincitore del Premio Strega 2020
edito da La Nave di Teseo
con Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Bérénice Bejo, Laura Morante, Sergio Albelli, Alessandro Tedeschi, Benedetta Porcaroli, Massimo Ceccherini, Fotinì Peluso, Francesco Centorame, Pietro Ragusa, Valeria Cavalli. E con Nanni Moretti
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Come dire: è un prodotto di moda. Il libro è stato in classifica (e ci tornerà) e ha vinto nel 2020 il Premio Strega. Il film è in testa agli incassi e questo, al di là di ogni considerazione, è un’ottima notizia dopo i tempi di crisi feroce del botteghino. Insomma, del nuovo film di Francesca Archibugi, Il colibrì, tratto dal romanzo di Sandro Veronesi bisogna per forza parlare. Non necessariamente bene. Io sono molto divisa. Da una parte mi rendo conto che l’impresa (prevedibile: ovvio che il libro sarebbe diventato un film) non era semplice. Una trama fitta, una vita intera condensata in 360 pagine, con tanti eventi, molta soggettività e un andirivieni nel tempo che sullo schermo è complicato trasporre. Dall’altra una storia personale così intensa doveva trasmettere prima di tutto emozione. E invece è proprio quello che manca in un compitino molto pensato, molto costruito ma che non arriva mai al cuore.
Francesca Archibugi e i suoi cosceneggiatori hanno dimenticato il libro, piegandolo alle esigenze dello schermo. E questa è stata una strada vincente, perché era l’unico modo di portare sullo schermo la storia di Marco Carrera, un medico oculista di successo che attraversa la vita come un colibrì, ovvero agitandosi sempre moltissimo ma con un fine da non caos calmo: non scombinare mai gli equilibri, prestando la massima attenzione agli altri, al punto di negarsi la felicità se può provocare infelicità. Ed è così che attraversa la carriera, il matrimonio, la paternità, amori sensati, passioni mancate, coincidenze significative, come le definirebbe Jung, di fronte alle quali però si immobilizza per non rischiare, per non trovarsi di fronte l’abisso, per non ferire.
Lo vediamo bambino, nella magnifica villa di famiglia all’Argentario e poi adulto, nello studio medico, e ancora adolescente innamorato perso di una ragazzina speciale, Luisa Lattes, che amerà per tutta la vita, pur essendo sposato con un’altra donna. Rinuncerà a lei? No, troverà il modo di continuare a vederla, imponendosi una castità fuori tempo per il terrore che una passione consumata possa esaurirsi. Appunto, il colibrì che ha bisogno di congelare l’istante, di trattenere il fotogramma sbattendo forsennatamente le ali per non cadere. E’ la vita, in fondo, quando non ci si tiene lontani da rivoluzioni e sconvolgimenti. Ancora di più se, come per il nostro protagonista, alcuni eventi casuali sono diventati fatali, come essere sceso all’ultimo momento da un aereo che poi è precipitato senza sopravvissuti.
Ma per essere un colibrì occorre un’energia spropositata non basta stare fermi, bisogna sbattere le ali. Cosa che Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista non fa e traduce la “non azione in movimento” in una mitezza rassegnata, fin perdente, spegnendo il personaggio del romanzo. Credo avrebbe dovuto lavorare in modo diverso, con più grinta, con dolore trattenuto, con desiderio che scavava la pelle e il cuore.
L’altro scoglio complicato era quello di racchiudere in due ore di film una vita intera. Come comportarsi di fronte ai flash back e flash award del libro? La regista ha optato per un montaggio temporale alternato, purtroppo molto casuale: passato, passato prossimo, passato remoto, presente, presentissimo e futuro si mescolano in modo disordinato, con protagonisti bambini interpretati da giovani attori mentre per il futuro c’è un make up molto invadente che si fa carico dell’invecchiamento. Forse sarebbero stato più credibili altri attori, anziani. Ma non è tanto questo a disturbare, o perlomeno a rendermi perplessa, sono i salti temporali disordinati che fanno scorrere tasselli che non si ricompongono. Che alternativa avrebbe potuto esserci? O un montaggio cronologico, fin didascalico ma chiaro, oppure, ma qui ci vuole Quentin Tarantino o Rashmoon, una serie di salti nel tempo molto pensati, perché tutto deve arrivare a un senso finale, a una scoperta e ricomposizione vera.
Ho invece molto apprezzato nel passaggio dal libro al film l’avere completamente ignorato le insopportabili ultime pagine “messiatiche” (non così poche, saranno una cinquantina) sulla ragazzina del futuro, una sorta di Greta Thunberg ossequiosa al politicamente corretto e debitrice della peggio New Age. Di questo, grazie al cielo non c’è traccia.
L’impegno produttivo del film, italo francese, è consistente: Bérénice Bejo nei panni di Luisa Lattes, ha una indipendenza dolce e romantica da cui mai si discosta; Laura Morante, la madre del protagonista, è bellissima, intensa, in un ruolo a cui ha regalato anche pennellate autobiografiche; Nanni Moretti è lo psicanalista “grillo parlante” che accompagna il colibrì attraverso gli scogli dell’esistenza.
I bambini sono tutti credibili (in questo Archibugi è sempre stata perfetta), Kasia Smutniak si dà molto da fare, forse troppo nel ruolo della moglie bipolare e ricorda qua e là Michela Ramazzotti. Probabilmente il film piacerà e continuerà a incassaee, perché le storie familiari corali conservano un loro coefficiente di attrazione: ma, siate sinceri, c’è stata almeno una sequenza che vi abbia davvero emozionato?
M. Cristina Flumiani
12 Dicembre 2022 at 3:58 pm
Buongiorno, a me è piaciuto molto il film Il colibrì, l’uccellino che concentra tutte le sue forze nello stare fermo. E’ il ruolo del protagonista, imprigionato nel sogno di un amore antico, che lotta per dare un senso alla vita e alla famiglia. Sono tra l’altro bellissime le bambine del film che hanno un ruolo di collante in famiglie disgregate per vari motivi.
Nonostante le disgrazie e le vicissitudini, il protagonista riesce a mantenere un equilibrio e le canta agli amici scorretti e disonesti che per soldi sono disposti a tutto; si dice contento di preferire il lavoro che ama e la nipotina alle lusinghe del denaro. La normalità dà equilibrio; ma anche i valori come l’affetto, l’onestà, l’amicizia danno forza e appoggio. Nella scena finale è circondato da una famiglia che lo ama e lo stima. Bravissimo Nanni Moretti nel suo ruolo di psicologo.