RIFLESSI DI CINEMA

Il dolore lenito da un’infinita dolcissima tenerezza di Luc Besson

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Un film a metà fra una graphic novel e una pellicola da supereroi dove il crudo realismo si stempera nella fantasia dell’immaginazione e dell’arte

DogMan

Regia di Luc Besson
con Caleb Landry Jones

4 stelle

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Può un film essere contemporaneamente un concentrato di trasgressività e dolore e al tempo stesso conservare la magia dei racconti dell’infanzia? Può, se alla regia (e come sceneggiatore) c’è un autore spregiudicato come Luc Besson che nella sua carriera ha messo alla prova la sua creatività, attraversando territori e generi sempre diversi, dalla fiaba metropolitana di Subway alla fantascienza del Quinto elemento, dall’action movie adrenalinico della serie Taxxi alle storie immerse nella natura come Il grande blu.
La storia di Dogman ha un origine in un certo senso catartica, perché Besson, avendo letto un’orrenda notizia di cronaca, il caso di un bambino tenuto in gabbia dal padre, si interroga su come si possa metabolizzare un dolore così grande: che uomo diventerà chi ha vissuto una simile esperienza?

Ecco allora, come in una graphic novel, la storia Douglas, bambino intelligente, delicato, nato nella famiglia sbagliata, con un padre psicotico e violento che alleva cani per combattimenti, un fratello di inguardabile crudeltà e una madre troppo debole per opporsi alla perfidia del marito. Il padre odia quel figlio troppo sensibile e nell’ennesima esplosione d’ira lo rinchiude nelle gabbie dei cani. E lì il piccolo resta, gli animali, con cui sviluppa un’intesa totale, diventano i suoi soli amici e la sua salvezza.

Liberato in modo rocambolesco, costretto in sedia a rotelle dopo che il padre gli ha sparato, passa da una famiglia affidataria a un’altra, senza amici, impossibilitato a condividere il tempo coi coetanei, finisce sempre in mezzo ai cani e diventa da adulto il custode di un canile. Ma l’animo dell’artista gli resta, conosce Shakespeare, legge, ama la musica e la bellezza. E crede nella giustizia. Non farebbe male a nessuno se non ne fosse costretto, come i suoi cani che diventano non solo i suoi amici e sostenitori ma anche le sue protesi, le gambe che non può usare, il suo tramite con il mondo, i giustizieri.

A ogni inquadratura speriamo che qualcosa si aggiusti, che Dio guardi giù e salvi Douglas, che non gli faccia continuamente incrociare le bruttezze del mondo e invece Dio si dimentica di lui e sono molto più generose alcune drag queen di un locale en travesti dove per caso Douglas inizia a lavorare: si trasforma in Edith Piaf, in Marlene Dietrich, in Marilyn e ogni travestimento gli fa attraversare lo specchio, novella Alice sulla sedia a rotelle.

Traboccante di idee, con un centinaio di cani che la fanno da padrone in tante scene come in una carica dei 101 per adulti, il film sta a metà fra una graphic novel e una pellicola da supereroi, con un filo rosso messianico, attraverso il quale seguiamo il sacrificio di Douglas che muore però per se stesso, perché non ha nessun’altro da salvare.

Un film unico, un progetto sulla carta impossibile che ha trovato per concretizzarsi solo grazie al fantastico protagonista Caleb Landry Jones. Che dire di lui? Che è pazzesco, bellissimo e mostruoso, dolce e sensuale, crudele e infantile, maschile e femminile e incarna quello che probabilmente è e sarà il ruolo della vita. Dogman stordisce, con un lungo insostenibile dolore lenito da un’infinita dolcissima tenerezza, è un film dove il crudo realismo si stempera nella fantasia dell’immaginazione e dell’arte. Come dice Caleb, prima di essere assunto per lo spettacolo di drag queen: “Chi recita Shakespeare, può recitare tutto”. Luc Besson di sicuro ci crede.

 

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