RIFLESSI DI CINEMA

L’emozione cinematografica e la divertente leggerezza di Woody Allen

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Una storia coinvolgente che ci riporta al grande cinema del passato in un totale continuo divertimento, sorrisi sempre intelligenti e attori perfetti. Questo è il nuovo film di Woody Allen, assolutamente da non perdere!

RIFKIN’S FESTIVAL

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Scritto e diretto da Woody Allen

Con Wallace Shawn, Gina Gershon, Louis Garrel,
Elena Anaya, Sergi López,Christoph Waltz 

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Il piacere del cinema e la sensazione di essere in totale sintonia con quello che l’autore sta raccontando: conosco quello che mi mostri e mi piacciono le stesse cose che piacciono a te, mi sono emozionata con gli stessi film e le tue battute mi fanno sempre ridere. Come fai a 86 anni a essere ancora così irrinunciabile? Ebbene sì, amo senza riserve Woody Allen e mi godo ogni suo film, liberando la mente da ogni pensiero e lasciandomi nutrire dalle sue immagini, dalla sua libertà espressiva che non si ferma davanti a niente. Che sorvola allegramente sul politicamente corretto che ci sta ammorbando e sa conservare intatto tutto il cinismo scanzonato tipico della cultura yiddish.
In parole più semplici: che bello essere tornata in sala, dopo tanto tempo per vedere proprio questo incantevole film. Lunga vita a Woody Allen, che tu possa girarne ancora tanti tanti film. E grazie di tutto.

Allen da un po’ di anni sceglie i luoghi dei suoi film appoggiandosi a chi gli “paga” le riprese. Parigi, per Midnight in Paris, Roma, per To Rome with love, Barcellona per Vicky Cristina Barcelona e ora la cittadina della costa atlantica spagnola, durante il famoso festival, ma è così bravo e creativo da superare quello che per molti altri sarebbe un limite e l’obbligo della location non grava per niente sul risultato finale, anzi lo esalta. E che c’è di male se allo spettatore viene una gran voglia di visitare San Sebastian?

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Fin dal titolo è tutto dichiarato: stiamo per vedere quel che accadrà al protagonista, Mort Rifkin, (Wallace Shawn) appassionato di cinema ed ex professore, che accompagna la giovane moglie Sue (Gina Gershon) al Festival di San Sebastian, in quanto lei, publicist, scorta un giovane regista francese molto alla moda, Philippe (Louis Garrel). Il ruolo da principe consorte sta a Rifkin un po’ stretto, anche perché il rapporto più che affettuoso che lega la moglie al regista lo costringe sempre più in disparte, lasciandogli tempo per un bilancio sulla sua vita e chissà, magari anche il tempo per finire quel famoso romanzo che da anni giace incompiuto.

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Il film è intessuto di rimandi, battute, strizzate d’occhio. E chi conosce a memoria la filmografia di Woody Allen e ha come pietre miliari gli stessi registi che ha amato lui, su tutti Bergman, Fellini e Truffaut, si godrà ogni istante come un regalo. Chi non ha mai passato un pomeriggio in un cineclub,  come la maggior parte degli spettatori più giovani, si divertirà comunque, anche se con minore per dir così “consapevolezza”.

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Prendiamo in questo senso l’esempio più clamoroso, i tantissimi film citati con un gioco esplicito, racchiuso nella cornice della psicanalisi: il film si apre e si chiude con il protagonista sul lettino dello psicanalista, sempre inquadrato di spalle (lo stesso Woody Allen?) a cui viene snocciolato tutto il racconto, sogni compresi. Ma non si tratta di semplici sogni, sono tutti rifacimenti-omaggi virati al bianco e nero del passato dei film che hanno trasformato Woody Allen in un regista e nel modo in cui diventano sogni  tanti cinefili si rispecchieranno. Quando un film ti conquista, ci entri, coi meccanismi classici dell’identificazione e della proiezione, fai tue certe frasi, ti impossessi dei personaggi e delle tensioni che li legano, insomma, pieghi il grande film alla tua vita quotidiana, nobilitandola, esagerando, divertendoti, cercando annullamento, gratificazione e catarsi. Questo fa Woody Allen quando rimette in scena il ballo delle donne di 8 e ½ di Fellini, o quando filma la famosa slitta di Quarto Potere e quando inquadra le sue due donne alla maniera di Bergman che in Persona, in un frame famosissimo, filma le protagoniste, una di fronte e l’altra di profilo, cambiando il fuoco.

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Ci vuole un certo coraggio per rimaneggiare scene che sprigionano sacralità, ma Woody Allen le ha interiorizzata in modo così profondo, che può permettersi anche di tirarle giù dall’altare. Come quando rifacendo Godard (peraltro citato a piene mani anche da Louis Garrel) fa dire a Rifkin e alla moglie (nei panni di Belmondo e Jean Seberg) che sotto quel lenzuolo (scena cult di Fino all’ultimo respiro) per l’appunto non si respira.

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Rifà Jules e Jim, immaginando la moglie di Rifkin nei panni di Jeanne Moreau con Louis Garrel e il marito che la seguono pedalando e via di questo passo, spingendosi a omaggi inaspettati, ad esempio  per il Lelouch di Un uomo e una donna. Piegate al comico (che però era componente essenziale del surrealismo assieme all’assurdo) le scene rubate a Bunuel, per l’Angelo sterminatore e per il feticismo presente in più di un film del maestro spagnolo. Nella straordinaria chiusa azzarda l’impossibile: rifà la partita a scacchi con la morte del Settimo sigillo, cogliendo l’occasione per ribadire quello che ha dichiarato più volte. Per quanto riguarda il truce figuro con mantello e falce Woody Allen non ha cambiato idea: è sempre contro.

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Fermi, non spaventatevi, non c’è niente di pedante, niente di erudito e tantomeno di noioso nel film, che è pura leggerezza, totale continuo divertimento, sorrisi sempre intelligenti, attori perfetti, compresi i comprimari, come Sergio Lopez nei panni di un pittore assatanato o Christoph Watz, che coraggiosamente incarna la Morte del Settimo Sigillo. Come smaccato e dichiarato alter ego Woody Allen ha scelto un omino goffo e ogni sua battuta gli appartiene, Wallace Shawn è in tutto e per tutto Woody Allen, un uomo anziano e bruttino che però non ha mai perso e mai perderà la voglia di vivere, di scherzare e anche di innamorarsi. A costo di diventare ridicolo, perché senza ironia e senza amore cosa sarebbe mai la vita?

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