RIFLESSI DI CINEMA

Quando Hitchcock incontra Bergman

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E' questo ciò che accade nel film diretto da Justine Triet e che ci racconta cosa sia la verità, cosa sia la memoria e quanto fragili e incerte possano rivelarsi

Anatomia di una caduta

Di Justine Triet
Con  Sandra Hüller, Swann Arlaud, Samuel Theis, Jehnny Beth

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Uno chalet isolato sulle Alpi francesi, avvolto dal bianco abbagliante della neve. All’interno Sandra, scrittrice prolifica e di successo, sta rilasciando un’intervista a una studentessa sul suo lavoro. Le due donne ridono, si intendono, emanano quel calore che manca all’esterno. Ma la loro conversazione viene resa impossibile da una musica sempre più forte. Al piano superiore Samuel, il marito di Sandra, sembra voler boicottare la moglie. L’intervistatrice lascia lo chalet, Daniel, il figlio della coppia, esce per una passeggiata con il cane.

Il tempo è sospeso mentre seguiamo i passi incerti del ragazzino per i sentieri, accompagnato dal cane: è quasi cieco, si muove a tentoni, toccando ogni cosa prima di spostarsi. Al ritorno una scoperta agghiacciante: il padre giace morto in mezzo alla neve, davanti a casa. Da qui inizia il film, un film dove tutto sembra possibile e impossibile, dove la ricerca della verità, l’anatomia di quella caduta, sviscerata in tutte le possibili alternative, ci tiene inchiodati per più di due ore.

Vincitore della Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, il film, diretto da Justine Triet che lo ha scritto con il suo compagno, l’attore e sceneggiatore Arthur Harari, è piaciuto a tutti e il commento più frequente della critica internazionale è stato: una storia dove Hitchcock incontra Bergman. E in un certo senso è così, perché di fronte a uno schema di thriller classico, un morto per cause incerte, una presunta colpevole e un processo dove accusa e difesa si fronteggiano con durezza, lo spettatore dimentica la storia gialla e viene sempre più assorbito dalla protagonista (sublime l’attrice, la tedesca Sandra Hüller). E’ lei che calamita la nostra attenzione, è lei che scena dopo scena ci spiazza. Non sappiamo come siano andate le cose e non sappiamo a chi credere: al pubblico ministero convinto che la donna abbia ucciso il marito o a lei che sostiene la tesi del suicidio? Testimone involontario è il figlio undicenne che non si sottrae e che, assistendo al processo, scopre quei dettagli della relazione fra i suoi genitori che di solito ai bambini si tengono nascosti.

Noi cerchiamo di capire, aiutati dagli altri personaggi che arrivano in scena, l’avvocato difensore, vecchia fiamma di Sandra, il determinato avvocato dell’accusa, l’inflessibile giudice, una donna che valuta le ragioni di tutti, una ragazza incaricata dal tribunale di restare accanto a Daniel per proteggerlo da possibili influenze esterne e soprattutto materne che possano modificare i suoi ricordi e quindi togliere credibilità alla testimonianza.

Ci sono tante parole nel film, la coppia comunicava fin troppo, le discussioni e le liti che vengono ricostruite secondo diversi canali mettono a nudo la loro relazione, in cui i ruoli risultavano ribaltati: è Sandra a tenere le redini della sua vita, a rivendicare la sua libertà, mentre Samuel, che si occupa a tempo pieno del figlio, assume una funzione tradizionalmente materna. Sandra risponde alle domande, mente, viene scoperta, si spiega, cambia versione e non fa nulla per rendersi empatica neppure con lo spettatore. Non cerca comprensione, con freddezza sostiene la sua versione, convinta di non dover niente a nessuno, di non doversi scusare per come ha gestito la sua vita. Un giallo sì, ma anche l’analisi dei pregiudizi sul maschile e il femminile, sui “doveri” dei generi nella società di oggi.

Anatomia di una caduta, recita il titolo, ma potremmo anche aggiungere autopsia delle anime, perché tutti i protagonisti vengono esaminati con implacabile crudeltà chirurgica e nonostante questo, o forse proprio per questo, i dubbi restano. Non c’è niente di affrettato e neppure di superficiale, perché le storie per essere capite hanno bisogno di tempo e la regista se lo prende tutto. Ci vuole tempo per spiegare cosa sia la verità e cosa sia la memoria e quanto fragili e incerte possano rivelarsi. Ci vuole tempo per rappresentare la ferocia degli interrogatori: le vite e i loro accadimenti non sono teoremi matematici con un’unica soluzione, ma puzzle sfaccettati e slabbrati dove basta un cambio di luce per rivelare nuovi colori e diverse prospettive.

Non ci sono eclatanti colpi di scena, non ci sono grida, non ci sono pianti inconsolabili, non ci sono sceneggiate, solo una tranche de vie esaminata al microscopio. Ecco perché alla fine Bergman vince su Hitchcock: vogliamo entrare nelle dinamiche della relazione che legava Sandra e Samuel, a tratti percepiamo aspetti in cui possiamo specchiarci, a tratti ci spaventano le derive del loro rapporto e prendiamo le parti ora dell’uno ora dell’altro. Ci identifichiamo coi due protagonisti, con la loro vulnerabilità, con la strenua ricerca di parole chiare e sincere per spiegarci nei duelli sentimentali, ma quando i duelli diventano massacri allora nessuno può uscire vincitore. Ci sono solo anime sconfitte che si leccano ferite destinate a trasformarsi in cicatrici che mai scompariranno.
Eppure, anche se soffriamo capiamo che l’unica vita che valga la pena vivere è quella a carte scoperte, priva di censure e ancor di più autocensure.

 

 

 

 

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