Paul Schrader è uno dei grandi del cinema, è lo sceneggiatore di Taxi Driver, il regista di American Gigolò e di tanti altri titoli magari imperfetti, ma mai banali. Un uomo tormentato che in scena ha sempre dato corpo ai suoi fantasmi, al senso di colpa, al peccato e alla costante, combattuta ricerca di redenzione. Artista fedele al cinema tradizionale e all’importanza della storia, amante della trame robuste, ha realizzato un altro bel film.
Siamo in Georgia, sud degli States, in una lussureggiante tenuta ricca di alberi, fiori, cespugli tutti curati con sapienza da Narvel Roth che dedica ogni ora della sua giornata a Gracewood Garden. Tiene un diario in cui appunta meticolosamente le sue giornate, concentrandosi quasi solo sull’attività da orticoltore ma, ascoltando la sua voce fuori campo, capiamo che le piante sono metafora di qualche cosa d’altro, di un passato che abbiamo una gran voglia di conoscere.
Narvel è un bel tipo, molto maschile e rude, taciturno fino ad essere scontroso eppure solidale e fin affettuoso con tutti quelli che collaborano alla bellezza del giardino. La tenuta è magnifica e guardandola attraverso i suoi occhi quasi ci dimentichiamo del film e rifiutiamo la sensazione che si fa largo in noi: tutta quella bellezza, tutta quella armonia saranno presto incrinate. E’ inevitabile. Non capiamo che rapporto abbia il maestro giardiniere con la proprietaria della tenuta, Norma Haverhill (una splendida Sigourney Weaver), ultima signora di quei terreni, ereditati da antenati che di sicuro avevano gran familiarità col razzismo. Narvel è un dipendente perfetto e ubbidiente, Norma è autoritaria, eppure fra di loro traspare una confidenza difficile da decifrare.
Il fuoco che cova sotto la cenere, i segreti che intuiamo trovano un deflagratore nell’arrivo di Maya, nipote di Norma, ragazza ribelle che ha qualche guaio con la droga e la legge. Tre caratteri forti, tre personalità con un passato, inquiete eppure animate da una forte onestà di fondo che declinano in modi diversi ma i misteri li percepiamo perché ciascuno li porta tatuati sul corpo o sull’anima.
A metà film dimentichiamo la bellezza della natura e il piacere del verde e dei fiori e veniamo trascinati in un’atmosfera gialla quindi non è il caso di raccontare di più sulla trama. La bravura di Schrader è quella di scavare nelle contraddizioni del mondo, che siano il razzismo, le ingiustizie o la violenza senza però indossare i panni né del maestro né del predicatore: si accontenta di portare sullo schermo la società, lasciando che ciascuno colga il senso della giustizia, che ciascuno scelga la strada per combatterla.
Joel Edgerton mette il suo corpo muscoloso e la sua mascolinità trattenuta al servizio del film, costruendo un personaggio che non si dimentica facilmente. Senza effetti speciali, senza astuzie postmoderne, Schrader si affida solo al grande ottimo insuperabile buon classico cinema d’un tempo.
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