Per il secondo anno a Sanremo il padrone di casa è il cantante romano, coetaneo della manifestazione, essendo nato 107 giorni dopo la prima edizione. Una circostanza che si può leggere come una mini storia della musica leggere italiana. Parola di chi ha l’età dei due sessantenni evergreen
Se ti è capitato di nascere poche settimane dopo che si era svolto il primo Festival di Sanremo, puoi toglierti il vezzo di pensare che tu e lui siete cresciuti insieme e che la sua storia e la tua vita hanno proceduto in parallelo. E, in effetti, a me, venuto al mondo 53 giorni dopo che Nilla Pizzi aveva trionfato sul palcoscenico del Casinò con Grazie dei fiori, l’idea di essere coetaneo della più rinomata manifestazione canora del nostro Paese piace assai. E mi offre, ogni anno di questi tempi, il pretesto per una rilettura incrociata dei nostri rispettivi cammini di ultrasessantenni evergreen.
Certo, un’edizione, la prima, me la sono persa perché stavo ancora nuotando nel liquido amniotico. Peccato, perché essere registrato all’anagrafe proprio il 29 gennaio 1951 quando il pioniere dei presentatori Nunzio Filogamo diede il via alla storia del Festival sarebbe stato il massimo. Ma mi sono consolato scoprendo su Wikipedia che “l’edizione non ebbe particolare risonanza mediatica, tanto che i quotidiani dedicarono poche righe all’evento nelle pagine di cronaca. In occasione della seconda serata fu necessario trovare delle persone interessate a occupare alcuni dei tavolini rimasti vuoti nonostante il prezzo non eccessivo del biglietto d’ingresso, 500 lire”.
QUEI GRANDI DISCHI A 78 GIRI
Però, poi, delle edizioni successive mi resta, tra i ricordi indelebili dell’infanzia, quello dei grandi dischi neri a 78 giri che i miei nonni piazzavano su un mastodontico grammofono con mobile in rovere. In particolare, mi sembra ancora di riascoltare le parole di Vola colomba, prima classificata nel 1952, che finì per diventare per me una specie di lirica ninna nanna, altro che i neonati odierni svezzati al suono di Andiamo a comandare.
Anche gli esordi della mia vita sociale furono segnati dal Festival perché quella sciagurate delle maestre dell’asilo costringevano me e i miei malcapitati compagnucci a intonare tutti insieme con le nostre vocine garrule quella specie di inno patriottico da reduci dalla linea del Piave che era Vecchio scarpone, arrivata terza a Sanremo nel 1953. Oggi le posso perdonare per quello scempio da Telefono azzurro solo perché nessuno a quei tempi aveva già osato chiedersi “ma il coccodrillo come fa?”.
Il passaggio successivo, mio e del Festival, si verificò alla fine degli Anni 50, quando spuntò l’astro di Domenico Modugno, subito adottato, insieme ai primi cosiddetti urlatori, come nuovo idolo dalla generazione dei miei genitori che si poteva finalmente sbarazzare di vecchie cariatidi come Gino Latilla e Carla Boni, pace all’anima loro. I dischi nel frattempo si erano notevolmente rimpiccioliti di diametro e ora giravano sul piatto a 45 giri, ma, soprattutto, dal 1955, il Festival veniva trasmesso in Tv. Le tre serate da seguire tutti insieme in salotto divennero ben presto uno dei riti più tradizionali della mia e di tutte le famiglie italiane. Furono gli anni di Nel blu dipinto di blu, Piove, Romantica, 24 mila baci e tante altre canzoni di successo, passate direttamente dal palcoscenico di Sanremo alla storia del costume italico. Mio padre e mia madre, versione nostrana dei Cunningham di Happy Days, si precipitavano ad acquistare i nuovi dischi e li ascoltavano in continuazione, come altri milioni di loro coetanei baciati dal boom economico, perché l’Occidentali’s Karmadel momento era cantare le canzoni di Sanremo, orecchiabili per definizione e già sulla bocca di tutti il giorno dopo la loro prima esecuzione. E per noi ragazzini privi della consapevolezza di poter esprimere una nostra personalità e ancora relegati nel ghetto dello Zecchino d’Oro, il Festival rappresentava un appuntamento dal quale come figli non potevamo esimerci, un po’ come il pranzo dai nonni della domenica. Però, lo subivamo passivamente e acriticamente perché le nostre scelte, anche in materia di musica leggera, non erano ancora autonome, mica come adesso che a 3 anni compilano già la loro playlist.
ERA UN LENTO VS ROCK
Poi, per fortuna, arrivarono gli Anni 60, l’adolescenza per Sanremo e per i nativi del dopoguerra che si emanciparono anche musicalmente. Cominciai ad acquistare i miei 45 giri che non corrispondevano più a quelli dei miei genitori e per lo più non erano nemmeno stati incisi in Italia, perché stavo diventando un fan dei gruppi rock anglo-americani. E siccome qualcuno dei miei idoli di teenager capitava anche sul palcoscenico di Sanremo – dove ancora si cantava in coppia, un interprete italiano e uno straniero – il Festival divenne per qualche stagione il teatro di un conflitto familiare a sette note, genitori contro figli, un “lento vs rock” ante litteram, prima che Celentano se lo inventasse come conflitto musical-generazionale.
Fu l’edizione del 1967 a segnare una tappa fondamentale nella storia del Festival e nel mio rapporto con esso. Perché, malgrado la presenza di tante band (che allora venivano definiti “complessi beat“), a essere proclamato vincitore da Mike Bongiorno fu ancora una volta un vecchio rappresentante dell’Italia musicalmente conservatrice, Claudio Villa. Il successo del “Reuccio” mi convinse definitivamente a cercare altrove il piacere di ascoltare brani adatti ai miei gusti, meglio se in inglese. E, quasi a conferma della sospetta incapacità sanremese di sfornare prodotti di qualità arrivò il gesto estremo di Luigi Tenco, che scelse il suicidio come “atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione“. La tragica notizia, appresa tra l’ora di Greco e quella di Filosofia, convinse all’istante me e i miei compagni capelloni che il Festival era solo un bieco rito borghese, capace perfino, come un vorace Saturno, di divorare i suoi figli migliori
Così, contestare Sanremo divenne un imperativo categorico perché, in fondo, si trattava anche di un modo per ribellarsi alla società consumistica e perfino alla guerra in Vietnam, dove avevano mandato quel ragazzo che come noi amava i Beatles e i Rolling Stones. E poi, se c’era una rassegna canora degna di questo nome era quella che si era svolta a Woodstock, tre giorni di pace, amore e libertà, mica le tre serate di grigiore, perbenismo e banalità condotte da Pippo Baudo o Mike Bongiorno e dalla valletta di turno.
Poi, negli Anni 70, io e il Festival ci perdemmo un po’ di vista: io, perché nel frattempo avevo cominciato la mia carriera giornalistica e mi occupavo di sport, e lui perché entrò in un grigio periodo di crisi e semi abbandono, culminato con la vittoria nel 1979 di tale Mino Vergnaghi, antesignano dei Jalisse nella galleria dei “Chi li ha (mai più) visti?“.
LE COPERTINE DI TV SORRISI E CANZONI
La rinascita avvenne per entrambi dal 1980 con il ritorno agli antichi fasti sul nuovo palco del Teatro Ariston e, per me, con l’approdo al settimanale Oggi diretto da un ex cantante di discreto successo (nome d’arte: John Foster) che si era esibito anche a Sanremo, e proprio nel maledetto 1967. E, siccome la rivista vendeva parecchie migliaia di copie in più la settimana dopo il Festival, ogni anno la redazione si metteva al lavoro nella serata conclusiva del sabato per aspettare la proclamazione dei vincitori e confezionare il giornale da mandare in edicola il lunedì successivo. L’esibizione dei vari interpreti, alcuni dei quali suoi amici ed ex colleghi (e in quanto tali protagonisti di aneddoti divertenti e piccanti, ma “da non scrivere”)era commentata a voce alta dal Capo che coglieva anche la minima stonatura o imperfezione e tranciava giudizi che, a ricordarli oggi, fanno sembrare dei buffetti le critiche di Manuel Agnelli e Fedez ai talenti di X Factor. Ma noi eravamo lì per lavorare e anche, pilotati dai pronostici del direttore, per provare a costruire la copertina ben prima della proclamazione del vincitore perché anche una sola ora guadagnata sulla chiusura tipografica del giornale poteva significare bruciare la concorrenza, ovvero i settimanali Gente e Tv Sorrisi e Canzoni, del quale ultimo per altro si vociferava che preparasse 24 copertine (una per ogni concorrente), 23 delle quali destinate al cestino. Era un rito di squadra molto coinvolgente, quasi un nostro Festival parallelo a quello teletrasmesso. E io, nel mio ruolo di caporedattore, una specie di primo violino, lo guidavo coordinando gli inviati a Sanremo e a volte sostituendomi perfino a loro, come quando nel 1983 toccò proprio a me fare la prima intervista al telefono alla vincitrice a sorpresa Tiziana Rivale, perché nessuno dei colleghi in loco se la filava più di tanto. E ci lusingava anche considerare che alla fine noi della redazione di Milano andavamo a dormire più o meno alla stessa ora in cui si coricavano, esausti, i protagonisti del Festival.
E POI SONO ARRIVATI AMICI E X FACTOR
Passò qualche anno e sul palcoscenico dell’Ariston vennero catapultati i ragazzi usciti dai talent. E io, rispettando ancora una volta il mio personale parallelismo con il Festival, ne condivisi la nuova realtà perché nel frattempo ero andato a dirigere un settimanale che si occupava prevalentemente di programmi televisivi come Amicie X Factor. E così, in quella che, dopo tanti anni di amore a distanza, rimane la mia unica presenza di persona a Sanremo, mi sono ritrovato nel 2009, in occasione della serata inaugurale, a consegnare una targa speciale del mio giornale, Visto, a Marco Carta per il suo successo nell’Accademia di Maria De Filippi, riconoscimento che fu di buon auspicio per lui, dato che poi conquistò anche il ben più prestigioso trofeo con la palma e il leone. E io potei pubblicare in copertina la foto di me che premiavo il vincitore di Sanremo, come sognavo da sempre, forse dai tempi di Nilla Pizzi.
Il resto è storia di oggi e anche quest’anno, come nell’era di Modugno e Villa, mi ritrovo allineato con milioni di connazionali a seguire l’edizione n. 69 dal salotto di casa, tra amici e parenti appositamente convocati, dato che quel rito nato negli Anni 50 in fondo resta valido anche nel XXI secolo perché, come diceva quel tale, Sanremo è Sanremo. E mi inorgoglisce la circostanza di essere l’unico della piccola combriccola domestica a potersi dichiarare, carta d’identità alla mano, coetaneo della manifestazione che stiamo seguendo e sento questa coincidenza anagrafica come un privilegio, quasi avessi contribuito anch’io a scrivere un pezzo della storia patria. Per cinque serate la leva del 1951 mi sembrerà una vera classe di ferro: io, il Festival e chi altro? Ah già: Claudio Baglioni, e scusate se è poco. Però, lui è nato ben 107 giorni dopo l’avvio della prima edizione, 54 dopo di me. In fondo, avevo diritto a esserci io al suo posto…
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