
Quando in Francia il thriller s’identifica nell’umanità
ROUBAIX – UNE LUMIERE
un film di Arnaud Desplechin
con Léa Seydoux, Sara Forestier, Roschdy Zem
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Una periferia diversa dal solito, dove la quotidianità ha la meglio sull’esasperazione, una banlieu mai urlata, una povertà guardata con sguardo compassionevole, volto a capire le miserie umane. Arnaud Desplechin, regista francese amato dalla critica e dai festival, aveva abituato il suo pubblico a film difficili, quasi sperimentali, sempre di nicchia. Sorprendendo tutti compie una virata bruschissima e si confronta con il cinema di genere, ma lo fa a modo suo con una identificazione e una umanità che raramente i thriller riescono a esprimere.
Sceglie un luogo che conosce bene, la città in cui è nato, Roubaix, nell’estremo nord della Francia, una zona oggi impoverita e dimenticata e si concentra su un fatto di cronaca che già era stato raccontato in un documentario di France 3 da Mosco Boucault, l’assassinio di una ottantenne in un quartiere degradato, un crimine gratuito, inspiegabile. Il film si apre sul ritratto di un commissario, che incarna lo sguardo del regista, un uomo come lui nato nel quartiere e che della zona conosce tutte le difficoltà, le crudeltà e le grandi sofferenze. Lo vediamo nella prima parte del film, accompagnato da giovani colleghi, a confronto con delinquenti che ben conosce, poveracci che cercano di tirare avanti, giovani e meno giovani, francesi e immigrati, gente che vive di espedienti e che non ha in cima ai suoi valori la verità.
Non c’è pace per le strade neppure in quel momento, la notte di Natale, quando persino il crimine va in vacanza. Un’anziana è stata uccisa nel suo decoroso appartamento, il commissario deve indagare e lo fa soprattutto sulle due giovani donne che hanno denunciato il fatto, le vicine di casa dell’assassinata. Lentamente, dopo aver fatto prendere confidenza allo spettatore con l’ambiente, lo costringe a chiedersi che cosa si possa fare in certe situazioni, come si possa sconfiggere il senso di impotenza, come continuare a capire le persone, i “buoni” e i “cattivi”, ugualmente schiacciati da una condizione economica e sociale al limite.
L’indagine assomiglia a quella che in tempi lontani ed eroici fece Truman Capote nel suo A sangue freddo, quando in un memorabile reportage ricostruì il contesto e le motivazioni di un delitto inutilmente feroce, puntando la sua attenzione sugli autori. Più si sta vicini ai colpevoli, più si vengono a conoscere le loro storie e meno si riesce ad applicare quella giustizia che tiene poco conto della complessità delle vite e dell’accanimento del destino, che distribuisce i suoi favori senza sottomettersi alla democrazia e men che meno all’uguaglianza.
La verità, nel corso degli interrogatori, raramente così realistici al cinema, viene continuamente ribaltata, le ricostruzioni si susseguono mai uguali e c’è sempre un tassello che non torna. Non c’è niente di più lontano dal cinema d’azione di questo film che è un progressivo inabissarsi nei territori del male che diventano sempre meno misteriosi e punibili, seppure mai giustificati né giustificabili. Thriller della disperazione e della pietas, qualcosa di totalmente diverso dai gialli consolatori o dai noir cupi, ignora cosa sia lo splatter, il pulp e mette tanto cuore nel tentativo di capire quell’inestricabile che è l’animo umano. Un film che racconta come la morte non arrivi mai con la velocità a cui ci ha abituati il cinema e come la scoperta del colpevole sia ben più sfaccettata di un rapidissimo mani in alto vi sbattiamo in galera e buttiamo la chiave. Un film bellissimo e dolente. Implacabile, non adatto a chi nella vita ha sempre scelto i percorsi più facili o superficiali.
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